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TRE domande a… Massimo Giacchino

Se ci sono modifiche che vuoi che facciamo alla parte introduttiva segnale pure in rosso.

Dopo il successo di Design Marketing e Audience Personas, Massimo Giacchino è tornato con un nuovo libro dedicato a uno dei temi più urgenti del momento: l’uso dell’intelligenza artificiale nelle analisi di mercato.

Con Analisi di Mercato AI, Giacchino mette ordine in un panorama spesso dominato dall’entusiasmo tecnologico, riportando al centro la figura del professionista capace di leggere, interpretare e trasformare i dati in scelte strategiche consapevoli.

Nelle scorse settimane, la community di Libri di Marketing ha avuto l’occasione di avere un’anteprima del libro e approfondire il suo metodo attraverso una newsletter esclusiva in sei puntate, in cui l’autore ha condiviso esempi, strumenti e riflessioni su come utilizzare l’AI in modo efficace, senza cadere nelle semplificazioni o negli automatismi dei “prompt miracolosi”.

Partendo proprio da quei contenuti, abbiamo voluto continuare la conversazione con tre domande che toccano il cuore del suo pensiero: l’’uso consapevole dell’AI, le nuove competenze del “professionista cyber” e il ruolo dell’intuito umano nel marketing dei dati.


Nelle newsletter che hai scritto per noi spieghi che “non basta scrivere un mega prompt e aspettarsi che l’AI svolga l’analisi di mercato al posto nostro, perché i contenuti su cui si basa sono spesso “generici, incompleti o decontestualizzati”. Quali sono, secondo te, gli errori più comuni che commette chi usa ChatGPT (in generale e per fare analisi di mercato)

L’errore più grande è pensare che ChatGPT sia un analista, quando in realtà è un amplificatore di conoscenza.
Non ragiona come un essere umano, ma genera risposte probabilistiche basate su testi già presenti in rete o nei dati di addestramento. Quindi, se non gli diamo contesto, dati e direzione, inevitabilmente produce risultati generici, decontestualizzati o addirittura fuorvianti.

Da qui nascono i tre errori più comuni:

1. Usare prompt troppo vaghi o “onnicomprensivi”

Scrivere “fammi un’analisi di mercato sul settore cosmetico” non è un’analisi, è una domanda da ricerca scolastica.
L’AI non sa cosa stiamo cercando davvero: se trend, dati quantitativi, buyer personas o insight culturali.
Un bravo stratega invece parte sempre dal focus: perché voglio questa analisi e a cosa mi serve?
Solo dopo costruisce il prompt come una domanda guidata e specifica, con criteri, mercati, target e fonti da consultare.

2. Non fornire dati reali o micro-dati

ChatGPT non accede ai tuoi database, ai CRM o ai dati di vendita.
Senza micro-dati (commenti, recensioni, query di ricerca, dati social, feedback reali), il modello lavora su conoscenze generiche e spesso datate.

Il risultato? Insight belli da leggere, ma inutili per prendere decisioni.
Quando invece “nutri” l’AI con micro-dati veri, lei riesce ad amplificarli, collegarli e restituirti pattern che a occhio umano sarebbero difficili da individuare.

3. Accettare la prima risposta come verità assoluta

Molti trattano ChatGPT come un oracolo, non come un collaboratore.
Invece l’analisi di mercato con l’AI è un dialogo iterativo: si chiede, si corregge, si approfondisce, si validano le fonti.
Serve metodo: confrontare risultati, chiedere spiegazioni, chiedere “da dove hai preso questa informazione?” o “quale bias potrebbe esserci in questa analisi?”.
Solo così si passa da “testo generato” a analisi ragionata e utile.

In sintesi: chi sbaglia nell’usare ChatGPT non pecca di curiosità, ma di metodo. L’AI può fare moltissimo, ma solo se c’è un analista umano capace di guidarla, filtrarla e interpretarla.
Perché l’intelligenza artificiale amplifica ciò che trova, e se trova confusione, amplificherà anche quella.

Ci hai detto che dobbiamo diventare “più cyber”, cioè capaci di usare la tecnologia come timone e non come bussola. Quali sono le tre competenze chiave che definiranno il nuovo professionista nei prossimi anni?

Quando dico che dobbiamo diventare “più cyber”, richiamo il termine greco “timoniere”, cioè colui che grazie alle conoscenze e all’esperienza riesce a navigare anche in acque impervie, mai viste prima.


Di conseguenza intendo che l’AI non sostituisce l’intelligenza umana, ma la amplifica se sappiamo governarla.
E proprio per questo, i professionisti dei prossimi anni dovranno sviluppare tre competenze fondamentali.

1. Intelligenza strategica

La prima è la capacità di dare direzione alla tecnologia, non subirla.
Saper formulare domande efficaci, tradurre obiettivi in prompt precisi, interpretare i risultati e trasformarli in scelte concrete.

Chi non sa leggere il dato, finisce per dipendere dal modello invece di usarlo come leva.

L’intelligenza strategica è ciò che ti permette di capire cosa chiedere all’AI e soprattutto perché.

2. Competenza ibrida

Il nuovo professionista non potrà più essere solo “creativo” o solo “analitico”.
Servirà un profilo ibrido, capace di muoversi tra dati, linguaggio e contesto umano.
Chi lavora nel marketing, nella ricerca o nella consulenza dovrà conoscere i meccanismi base dei modelli di linguaggio, dei dataset, delle fonti e dei bias.
Non serve saper programmare, ma serve capire come ragiona la macchina per non confondere correlazioni con causalità.

3. Etica e consapevolezza cognitiva

L’ultima, ma forse la più importante, è la consapevolezza dei limiti umani e artificiali.
Chi usa l’AI deve imparare a riconoscere quando un’informazione è distorta, incompleta o priva di contesto.
Serve un pensiero critico che sappia distinguere il vero dal verosimile, e un’etica professionale che guidi le scelte in modo responsabile.
Non possiamo affidarci a un algoritmo per decidere cosa è giusto o cosa funziona: quel ruolo resta umano.

In sintesi, il nuovo professionista “cyber” non è quello che usa più strumenti, ma quello che pensa meglio grazie agli strumenti.
La differenza non sarà tra chi usa o meno l’AI, ma tra chi la usa per sostituire il proprio pensiero e chi la usa per potenziarlo.

In Analisi di Mercato AI c’è molto del tuo pensiero sul ruolo dell’esperienza. Quanto contano ancora l’intuito e l’osservazione diretta nel marketing dei dati?

L’intuito e l’osservazione diretta contano più che mai, proprio perché oggi siamo sommersi dai dati.
Il rischio, con l’AI e con la quantità di informazioni che abbiamo a disposizione, è di confondere l’abbondanza di dati con la profondità di comprensione.
E la comprensione nasce sempre da occhi umani che sanno leggere i segnali, interpretare le sfumature e cogliere ciò che ancora non è nei dati.

1. L’intuito come sintesi dell’esperienza

L’intuito non è magia: è esperienza sedimentata che riconosce pattern invisibili.
È ciò che permette a un marketer o a un analista di capire quando un numero “non torna”, quando un insight è interessante o quando un trend è solo rumore.
L’AI può segnalare correlazioni, ma non può dire se quella correlazione ha senso nel contesto umano, culturale o strategico in cui operiamo.
Questa valutazione è ancora — e resterà — una competenza umana.

2. L’osservazione diretta come fonte di verità

Nel libro insisto spesso sul concetto di micro-dati: ciò che le persone dicono, cercano, chiedono, commentano.
Sono frammenti di realtà che nessun modello può generare artificialmente.
L’osservazione diretta nelle community, nei negozi, nei forum, nei comportamenti digitali, è il modo più concreto per restare ancorati alla realtà.
È lì che capiamo i perché, non solo i quanto.

3. Il ruolo dell’esperienza nel filtrare i dati

Con l’AI possiamo produrre analisi infinite in pochi secondi.
Ma solo l’esperienza ci aiuta a filtrare ciò che conta: a capire quali domande porre, quali dati scartare, quali segnali approfondire.
L’esperienza è ciò che trasforma l’analisi in decisione, e la tecnologia da strumento a leva strategica.

In sintesi: i dati e l’AI ci mostrano il mondo com’è, ma solo l’esperienza ci aiuta a capire perché è così e dove può andare.
L’intuito non è in contrasto con il marketing dei dati: è ciò che lo rende umano, intelligente e  soprattutto rilevante.

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