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TRE domande a… Benedetta Balestri

In pochi anni One Shot Group è diventata una delle realtà più riconoscibili nel panorama italiano della comunicazione digitale e del talent management. Alla guida c’è Benedetta Balestri, che ha fondato l’agenzia insieme a Matteo Maffucci – cantante degli Zero Assoluto e oggi suo marito – e a Eugenio Scotto, portando avanti un progetto che unisce creatività, strategia e una visione chiara del futuro dei creator.

Negli anni il gruppo si è ampliato con nuove unit: Straeasy, aperta insieme al direttore commerciale del gruppo Daniele Tozzi e dedicata alla strategia creativa; Rubrica Studio, costola strategica focalizzata sulle attività di digital PR; Streamland, casa di produzione fondata insieme a a Sebastiano Fernandez e ad Andrea Amato; e infine Zenzero Talent Agency, joint venture con Mondadori Media e Giallo Zafferano.

Accanto al lavoro in agenzia, Benedetta porta avanti anche un impegno nella formazione e come speaker in eventi nazionali, spesso con un focus sull’empowerment femminile e sulla necessità di costruire spazi professionali inclusivi, dove nuove generazioni e donne possano avere voce e opportunità e dove la cura del benessere psicologico sia considerata parte integrante del percorso professionale dei creator.

Con lei abbiamo parlato di come si riconosce un talento autentico, di cosa rende efficace un’attività di influencer marketing e delle sfide che attendono la creator economy nei prossimi anni.


One Shot Group è nata come agenzia di talent e oggi è un ecosistema con più unit dedicate. Qual è stata la scintilla iniziale che vi ha fatto capire che il talent management non bastava più e che era necessario costruire un gruppo più ampio?

La scintilla è arrivata lavorando sul campo: ci siamo accorti che il talent management era solo il punto di partenza. Lavorare con i creator significa offrire loro un servizio molto più ampio che non si limita alla rappresentanza, ma tocca aspetti autorali, produttivi e strategici. Per costruire una squadra di professionisti in grado di accompagnarli in tutte queste aree, era necessario ampliare il business e strutturarlo in modo diverso.

In più, io e i miei soci, Matteo Maffucci ed Eugenio Scotto, siamo sempre stati appassionati e visionari: non potevamo fermarci lì. Ogni volta che vediamo un vuoto nel mercato o un’esigenza non soddisfatta, ci viene naturale trasformarlo in un’opportunità per far crescere il gruppo. È così che One Shot è diventata un ecosistema e non una semplice agenzia.

Oggi tutti parlano di creator economy, ma pochi riescono davvero a strutturarla. Dal tuo punto di vista, qual è la differenza tra “gestire influencer” e costruire un progetto di comunicazione a lungo termine insieme a loro?

La differenza sta nel pensiero strategico. Gestire un influencer non significa occuparsi delle collaborazioni con i brand, e ancora meno concentrarsi su collaborazioni spot, che possono funzionare nell’immediato ma non creano valore duraturo. Costruire un progetto di comunicazione con i creator significa, invece, lavorare su visione, coerenza e posizionamento: capire come quel talento può dialogare con i brand, ma anche da dove partire per lavorare sul talento, come può evolvere la loro identità, aprirsi a nuovi linguaggi, diventare parte di un racconto più grande.

È un percorso che richiede fiducia reciproca, investimenti e la capacità di guardare oltre la singola campagna. E questo vale anche nel lavoro con i brand. Non si tratta esclusivamente di numeri: oggi ci sono temi imprescindibili che un’azienda deve conoscere, tra cui la comprensione profonda di chi sono i creator, qual è il loro passato, le loro ambizioni ed i loro valori. Per farlo serve il supporto di chi sappia guidare brand in una relazione che sia autentica e duratura, andando oltre la singola attivazione.

In un mercato dove tanti giovani aspirano a diventare creator, quali sono i segnali che ti fanno capire chi ha davvero le carte in regola per emergere e come questi tratti si collegano ai trend futuri della comunicazione digitale che ti entusiasmano o ti preoccupano di più?

I segnali che noto subito sono l’autenticità, la costanza e la capacità narrativa. E anche che siano guidati da reale passione e non solo da finalità economiche. Non basta avere numeri: serve avere un linguaggio proprio e la forza di mantenerlo nel tempo, anche quando non porta risultati immediati. Mi colpiscono molto i creator che nel tempo sanno ascoltare la loro community che cambia e crescere insieme ad essa.

Guardando al futuro, mi entusiasma l’ibridazione dei linguaggi, creator che diventano conduttori, autori, imprenditori, perché apre possibilità nuove, anche per chi lavora al loro fianco. Mi preoccupa invece la pressione della performance continua: il rischio è che tanti giovani inseguano solo il trend del momento senza costruire una voce distintiva. È qui che, secondo me, agenzie e gruppi come il nostro hanno una responsabilità: accompagnare i talenti a crescere senza bruciarsi e supportarli anche nell’avere un rapporto sano con i social.

Le pressioni dell’essere costantemente esposti al giudizio, la difficoltà nel distinguere la sfera lavorativa da quella personale e l’impatto psicologico che tutto questo comporta sono aspetti centrali. La salute, anche mentale, deve essere tutelata come in qualsiasi altro lavoro, perché solo così il percorso può essere sostenibile e duraturo.

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