Se Michela Murgia l’ha definito come “un libro che fa riflettere e che può aiutarci a cambiare il nostro modo di comunicare“, sicuramente è perché anche lei ha apprezzato la lucida e puntuale analisi del sessismo linguistico di cui si fa portavoce questo testo, unitamente a delle proposte concrete per un linguaggio più inclusivo.
La lingua di genere: un dibattito acceso per un futuro più inclusivo
Smascherare le discriminazioni e le limitazioni alla libertà di pensiero attraverso la lente del genere: questo l’obiettivo del testo, che si inserisce in un acceso dibattito pubblico di grande interesse.
La lingua che usiamo non è neutra ma spesso incorpora abitudini sessiste e veicola stereotipi di genere dannosi. Per questo motivo, è fondamentale un uso consapevole e attento del linguaggio, che valorizzi le differenze e promuova l’inclusione.
Capitolo dopo capitolo, il testo ci accompagna in un viaggio illuminante dove troviamo:
- Esempi concreti di discriminazione: le donne sono spesso vittime di un linguaggio sessista che le marginalizza e le discrimina;
- Riflessioni profonde: il linguaggio come dispositivo di classificazione e percezione della realtà;
- Proposte concrete: per un uso non discriminatorio del linguaggio, equidistante e corretto, non in senso normativo-prescrittivo ma consapevole e inclusivo.
Il celebre linguista Sabatini individua un sessismo nella lingua e un sessismo nell’uso ovvero un livello linguistico nella disparità donna/uomo legato alle norme linguistiche codificate nelle grammatiche e un livello “semantico” legato cioè al significato del lessico e delle immagini. La questione centrale è quindi quella della produzione di significati per mezzo della parola.
La performatività di un termine
Chiameremo “performatività” il meccanismo che rende le parole capaci di interpretare e operare nel mondo. La performatività di un termine ingiurioso attribuito a un interlocutore si estende a tutti gli usi discriminatori, di tipo razzista, nei quali «la questione era se il linguaggio e l’invettiva razzista dovrebbero essere compresi come un componente della discriminazione razziale o come un aspetto dell’aggressione» (Butler, 2021).
C’è una dimensione culturale che trascende il singolo emittente dell’espressione ingiuriosa e che la include dandole un significato generale e permanente al di là della singola occasione.
Il linguaggio della discriminazione
Il linguaggio violento è ancora influente sui social dove si rinnova e sedimenta una cultura pre-esistente e la proietta nel futuro. I risultati della ricerca di Amnesty International Italia (2020), Barometro dell’odio – Sessismo da tastiera, svolta tra novembre e dicembre 2019, ha analizzato i contenuti relativi a 20 personaggi noti italiani, 10 donne e 10 uomini, tra cui Chiara Ferragni, Roberto Saviano, Laura Boldrini, Tiziano Ferro, Giorgia Meloni, Gad Lerner, Vladimir Luxuria, Saverio Tommasi solo per citarne alcuni. Sono stati valutati 42.143 commenti.
Dalla loro analisi è emerso che:
- Più di un commento su 10 risulta essere offensivo, discriminatorio o hate speech (14%);
- quando il tema del contenuto è “donne e diritti di genere”, l’incidenza dei commenti offensivi, discriminatori o di hate speech sale al 29%;
- l’incidenza media degli attacchi personali diretti alle donne supera il 6%, un terzo in più rispetto a quella degli uomini (4%);
- degli attacchi personali diretti alle donne, uno su tre risulta essere di carattere sessista (33%) – per alcune delle influencer prese in esame il dato arriva fino al 50% o al 71%;
- negli attacchi personali alle donne il tasso di hate speech è 1,5 superiore volte quello degli uomini;
- quasi un contenuto su quattro relativo a “donne e diritti di genere” offende, discrimina o incita all’odio contro le donne (o contro una donna in particolare).
Il fenomeno dell’intersezionalità
Un focus particolare merita la misoginia, che risulta ancora preponderante. Forti, continuati e concentrati sono gli attacchi contro le donne. Il quadro che ne deriva è ancora sensibile a una differenza di potere.
Viene preso in esame il caso di Rama Malik, una ragazza di origine senegalese residente a Faenza che aveva postato un video su Facebook il 14 dicembre 2019, dove dichiarava il suo sostegno per un movimento della sinistra. A seguito del suo post, ha ricevuto una tempesta mediatica (shitstorm) di espressioni umilianti, come: “mi chiamo Rama e sono una scimmia”, “ma vai a battere nel tuo paese…”, ecc.
Messaggi nei quali emerge la deumanizzazione (scimmia) e la rappresentazione umiliante che esplicita la disuguaglianza e la sottomissione, sia in quanto africana sia in quanto donna.
Il combinarsi di categorie discriminanti dà luogo al fenomeno dell’intersezionalità e proietta un’ulteriore complessità nel grado di violenza verbale. L’effetto moltiplicatore è difficile da contrastare: donna e zingara, donna e di colore, donna e disabile, ecc. Così, nel caso della ministra Kyenge la natura scimmiesca rivelerebbe una sorta di originaria, naturale inferiorità in aggiunta a quella di essere donna, «l’origine africana della ministra, essere donna e, per di più, investita di una carica istituzionale elevata sono difficilmente scindibili nelle rappresentazioni de-umanizzanti che l’hanno riguardata».
I messaggi di odio in rete
I messaggi di odio implicano in molti casi la disinformazione o la cattiva informazione in corrispondenza di opinioni e (pseudo) notizie condivise sul web e sui social (Facebook, Whatsapp, Instagram, ecc.). L’odio può scatenarsi contro sé stessi o contro gli altri, cioè singole persone che vengono prese di mira per le più diverse ragioni dalla violenza verbale e come risposta a eventi, fatti e personaggi che hanno un ruolo nella vita e sociale. Si tratta, in ogni caso, di messaggi che riflettono le pulsioni di comunità virtuali legate ad un “noi” identitario tanto più irrazionale quanto più forte. La rete riproduce comportamenti della nostra vita reale.
La società odierna tende all’adiaforizzazione, ossia a «dispensare una buona parte delle azioni umane dal giudizio morale e addirittura dal significato morale» (Bauman 1999: 49). Le azioni perdono la loro valenza etica e vengono valutate in base alle emozioni che suscitano.
Abbiamo la sensazione che odiare in rete sia più facile che farlo nella vita reale, perché non vediamo l’interlocutore in faccia. La società odierna e in particolare la rete ci mettono sempre più facilmente a contatto con persone che non solo provengono da altri luoghi ma che hanno visioni radicalmente diverse dalle nostre.
Grammatica del genere: alcune considerazioni
Prima di affrontare uno dei temi più dibattuti e più attuali, cioè quello del linguaggio inclusivo, ci soffermeremo sulla lettura semplicistica nella quale spesso incappiamo, ossia quella relativa al fatto che il genere impone categorie sessuate al mondo esterno.
In realtà, la morfologia di genere (maschile/femminile) e quella di numero (singolare/plurale) semplicemente distinguono insiemi di parole in rapporto a proprietà grammaticali.
Le lingue neolatine hanno due generi, cioè maschile e femminile, associati ad alcune classi (declinazioni) nominali. In italiano, la desinenza -o è associata, salvo poche eccezioni, al maschile singolare, mentre -a viene generalmente trattata come la flessione con interpretazione di default di femminile singolare. Non c’è una corrispondenza biunivoca tra genere e classe. Ad esempio, la flessione -a introduce sia il singolare di nomi maschili come nel caso de “il poeta”, sia il plurale collettivo di un sottoinsieme di nomi come nel caso di “le braccia”.
Generalizzando, la stessa desinenza -a, -o, -e può associarsi a generi diversi e lo stesso genere, per esempio maschile, può associarsi a desinenze diverse, -a, -o, -e. L’accordo coinvolge nomi e modificatori di classi diverse che si combinano identificando lo stesso individuo, come in voc-i acut-e, il poet-a, ecc. In italiano, il genere rispetto a cui il nome si accorda, non sono predicibili dalla radice, nemmeno quando sono coinvolti referenti sessuati.
Mentre può essere intuitivo a che cosa faccia riferimento la categoria genere in nomi come gatto/a, questo non vale per nomi per individui/oggetti non animati, come libr-o o lampad-a. Le desinenze rinviano al sesso solo quando si combinano con radici nominali ses suate come nel caso di donn-a femminile, o marit-o maschile, …

Le Parole del Sessismo è un testo fondamentale per comprendere l’importanza della questione della lingua di genere e per contribuire a costruire una società più giusta e libera da stereotipi.
Se le nostre scelte linguistiche offendono qualcuno dobbiamo senz’altro riflettere e fare esercizio affinché emerga in noi una sensibilità fino a ora assente o forse soltanto sopita nei confronti della valorizzazione e del rispetto delle differenze.
Tuttavia, occorre fare attenzione a non esasperare la questione linguistica perché questo nasconderebbe il fatto che le parole da sole non sono sufficienti a modificare la coscienza delle persone e i rapporti sociali che dipendono piuttosto dal modificarsi di convinzioni profonde e di visioni del mondo. D’altra parte, il linguaggio è lo strumento fondamentale del pensiero e l’espressione della libertà più autentica e non ci si può rinunciare.
Sessualizzare la lingua rientra in quei processi che restringono le libertà d’espressione. L’autrice sostiene che farsi chiamare “Il Signor Presidente” da parte di Meloni o “il direttore d’orchestra” da parte di Venezi, due donne, finisce con l’aderire al totalitarismo del “politicamente corretto. La vera emancipazione sarebbe parlare come ci viene, verrebbe da dire, che ci capiscano o meno!
L’espressione deve essere libera…Quello che veramente conta è che i comportamenti e l’immaginario collettivo condividano la libertà che viene dal capire e riconoscere i diritti di uguaglianza di tutti gli esseri umani.
